martedì 13 aprile 2010
fondo
uno squarcio enorme. questo si vedeva. dilaniava la terra per circa trecento metri. tutt'intorno, fino ai margini del dirupo, la giungla continuava rigogliosa a perpetuare i suoi sitemi di vite. era strano osservarlo dall'elicottero mentre man mano ci si avvicinava. la vegetazione era fittissima e si sviluppava in fasci nervosi che avvolgevano ogni roccia, ogni albero. la giungla appariva come un intreccio di viscere intestinali, vive, pulsanti, in cui si mescolavano odori e suoni in modo organico. ecco, tutto era propriamente organico.
tranne lo squarcio.
scendemmo con l'elicottero in una piccola pista estorta alla giungla tropicale con non pochi sforzi.
da lì ci avvicinammo al bordo dello strapiombo. un conato di panico inaspettato emerse dal mio stomaco. ebbi la sensazione di stare osservando il male stesso. freddo, buio, lungo e stretto. era un taglio vaginale, ma lontanissimo dalla sensualità, dal calore e dall'amore di una donna. era l'organo femminile non di Gaia, la grande madre, ma di una Terra morta. ebbi lo stesso disgusto nauseabondo che si può provare per un necrofilo.
salimmo sulla carrucola e lentamente cominciammo a scendere verso l'abisso scuro. appena dopo pochi metri ogni arbusto era scomparso lasciando il posto a qualche muschio viscido che ricopriva le rocce tagliate in spigoli netti, innaturali. dopo qualche altro metro ogni forma di vita era scomparsa, ci trovavamo soli immersi nel vuoto buio, con il meccanico rumore della catena e della struttura in profilati che cigolava ad ogni minima oascillazione. era una sorta di gabbia, tutta perfettamente in acciaio inossidabile, lucida, inerte, composta da spesse tubature che si congiungevano in snodi anodizzati, con dei piccoli fermi imbullonati che non erano affatto rassicuranti. il demone operatore appariva però tranquillo. per lui era solo uno dei tanti viaggi giornalieri.
le pareti di roccia ora erano quasi invisibili, si notavano ancora i tagli perfetti, certosini, eseguiti dai macchinari di scavo con una precisione che ricordava quella degli antichi mobili intarsiati, ma anzichè ricche decorazioni barocche qui si susseguivano geometrie perfette, simmetriche e poligonali. la luce era sempre più tenue, era anzi ormai scomparsa, l'aria si era fatta stantia, umida, soffocante. e dal basso iniziava a salire un fracasso infernale.
eravamo scesi per circa 4 chilometri, sul fondo le luci a led disegnavano i contorni del cantiere. centinaia di demoni correvano di qua e di là a bordo di piccoli mezzi di servizio. agglomerati di conteiner fungevano da luogo di riparo e riposo. erano lì sotto da mesi, forse anni, ma a loro sembrava non importare.
il rumore era insopportabile, portai le mani a coprire le orecchie temendo di impazzire. il frastuonio assordante faceva vibrare ogni lempo del mio corpo e ogni osso del mio cranio. le trivelle sconquassavano il suolo in profondità, si sentivano le viscere della terra gridare dilaniate dal dolore. sotto le spirali metalliche giravano vorticosamente e i sassi e i detriti depositati da tempi immemori venivano tritati e trucidati in uno stridere disumano.
le vene della falda terrestre erano perforate in centinaia di buche, con il solo fine di scendere sempre di più.
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